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Home Pasta & Riso

Il riso in arrivo dal Far East mette in crisi 4mila imprese italiane

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30 Marzo 2018
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Il riso in arrivo dal Far East mette in crisi 4mila imprese italiane

Il riso in arrivo dal Far East mette in crisi 4mila imprese italiane

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–di Micaela Cappellini  

Non si può tirare giù la saracinesca, nei campi. Impacchettare tutto e andare a produrre altrove. Con le lavatrici si può fare, si prende l’Embraco e la si trasferisce in Slovacchia, dove le tasse sono più basse e i lavoratori costano meno. Ma con i campi di riso, come si fa?

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Giorgio Carenini, 50 anni appena compiuti e un’azienda agricola a Zinasco, nel Pavese, non ha paura di ammetterlo: «L’anno scorso ho prodotto sottocosto». I 270 ettari di risaie di Alessandro Beccaro invece si trovano ad Arborio, provincia di Vercelli: «Nel 2017 il fatturato è sceso del 40% e non ho fatto utili», racconta. Cento chilometri di distanza li dividono, ma quando chiedi il perché di questo tracollo la risposta è sempre la stessa. La colpa è del riso della Cambogia, che arriva in Europa a dazio zero e fa collassare il prezzo di quello prodotto in Italia. L’arborio, per esempio, è sceso dai 700 euro alla tonnellata del 2016 ai 300 di oggi. Meno della metà.

Effetti collaterali della globalizzazione. Passano sottotraccia, quando ad alzare le mani sono singoli coltivatori. Ma quando gli effetti si ripercuotono identici su 4mila produttori agricoli – la media di un appezzamento in Italia è di soli 50 ettari – allora la questione diventa di sistema e richiede un intervento strutturale. Quattromila produttori sono l’equivalente di otto Embraco. Anche la Commissione europea alla fine se ne è convinta, e due settimane fa ha avviato un’indagine sugli squilibri generati nel mercato Ue dalle importazioni di riso dal Sudest asiatico. Valuterà le cosiddette clausole di salvaguardia, i contro-dazi insomma.

«Tutto è cominciato alla fine degli anni Ottanta – racconta il risicoltore Alessandro Beccaro – in Europa mancava la varietà Indica, quella a chicchi allungati per intenderci. Veniva tutta importata da fuori, ma era la più consumata nel Nordeuropa, che la usa come contorno. Così la Ue cominciò a dare incentivi a chi seminava questo riso. Io ho iniziato così». Beccaro non è stato l’unico. Racconta Paolo Carrà, presidente dell’Ente nazionale risi: «Fino al 1982 in Italia il riso occupava 169mila ettari, nel 2011 siamo saliti a 247mila: i 70mila in più sono tutti nuovi campi ricavati per la varietà Indica. Il nostro Paese produce il 50% di tutto il riso europeo e esporta il 60% della produzione». Ma quello che vendiamo all’Europa è solo il riso lungo, appunto.

Per molti anni va tutto bene, i risicoltori italiani passano dalle 300mila tonnellate esportate nel 2004 alle 600mila del 2008. Poi, arrivano gli accordi con i Paesi in via di sviluppo del Sudest asiatico: Myanmar, Bangladesh, Laos e soprattutto Cambogia. La Ue, per aiutarli, concede il dazio zero su tutto quello che l’Europa importa. E qui cominciano i guai dei 4mila risicoltori italiani. «Dai Paesi degli accordi Eba (Everything but the arm, tutto tranne le armi) entrano in Europa 10mila tonnellate di riso a chicco lungo nel 2008 e ben 370mila del 2016», spiega il presidente Carrà. Un’invasione. E il prezzo crolla. «Quando ho cominciato a seminare Indica – ricorda Alesandro Beccaro – me lo pagavano 350 euro alla tonnellata. Quando andava bene arrivavo anche a 400-450. Oggi me lo pagano 300 euro. Fino a 330 euro alla tonnellata è conveniente produrlo, sotto no».

Cosa fanno allora, i risicoltori italiani che avevano imboccato la via dell’Indica? Tornano sui loro passi e ricoltivano le varietà nazionali. Ma il mercato italiano è quello che è, più di tanto risotto non può mangiare. E così, per eccesso di offerta, crolla anche il prezzo del carnaroli e dell’arborio. E crolla per due anni consecutivi.

Fra due settimane si aprirà la stagione della nuova semina e Giorgio Carenini, che ha i campi nella provincia di Pavia, «la prima provincia risicola d’Europa», deve decidere cosa fare. «Il carnaroli mi sa che non lo metteremo più, perché non è remunerativo. Sa quanto mi entra in tasca, per ogni pacco di riso venduto al supermercato? 0,28 centesimi». Sullo scaffale quel pacco sta sopra i 3 euro.

Uscire da questo stallo è complicato e di ricette magiche nessuno ne ha. Riconvertire i campi a soia o a mais? «Qualcuno ci ha provato, nel Pavese e nel Novarese si può – racconta Beccaro – ma qui nel Vercellese è difficile. Nella parte a Nord dove sono io il terreno non lo consente». Eppoi ci sono i vincoli burocratici, per riconvertire ci possono volere anche cinque anni. Manrico Brustia, risicoltore e presidente della Cia-Agricoltori di Novara e Vercelli, da 30 anni coltiva riso Indica e dal 2014 fa i conti con l’import a dazio zero dalla Cambogia: «Mi ha fatto calare il fatturato del 25%. Ci vorrebbero i contratti di filiera con le industrie che lavorano il riso, in modo da spuntare prezzi più equi per noi produttori. Qualcuno dalle mie parti ha riconvertito a frumento, e loro i contratti di filiera li hanno».

Peccato che l’industria non abbia alcuna convenienza a farli: dove lo trovano, un momento così favorevole, con tanta materia prima disponibile a così basso prezzo? Stefano Greppi è fresco di nomina alla presidenza della Coldiretti Pavia e di riso se ne intende, perché lo coltiva sui 200 ettari della proprietà di famiglia. «L’industria non ha alcuna intenzione di sedersi attorno a un tavolo – ammette sconsolato – e sì che lo sappiamo che loro stanno andando bene. Lo vediamo dai turni che fanno: sempre aperti, giorno e notte». Parla per i 1.500 risicoltori della provincia che rappresenta, ma anche per se stesso: «Quest’anno semino ancora riso, l’anno prossimo sto valutando di riconvertire l’azienda ad altri cereali».

L’indagine Ue farà il suo corso e se va bene ci vorrà un anno. Nel frattempo, di sussidi all’orizzonte non se ne vedono. «Non li voglio, io, gli incentivi – dichiara deciso Giorgio Carenini – io voglio solo che mi sia riconosciuto il giusto prezzo. In Italia il triciclazolo nei campi è vietato, in Cambogia no. Scriviamolo su un’etichetta. E poi applichiamola non solo sui pacchi, dove è già obbligatoria, ma su tutti i prodotti industriali a base di riso, naturalmente solo su quelli derivati da riso italiano non trattato. Sarà il consumatore a decidere, se vale la pena pagarmi di più oppure no».

FONTE: http://www.ilsole24ore.com

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Tags: BangladeshCambogiaCia-AgricoltoricrisiEmbracoFar EastimpreseitalianeItalyLaosMyanmarRisoUE
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